Sandro Pertini è stato amato anche per il rispetto, l’affetto semplice e profondo con cui si è sempre rapportato al popolo minuto, quello che non sembra mai scrivere la Storia, pur avendola costruita. Il 25 aprile 1970, un mese prima che lo Statuto dei Lavoratori diventasse legge e la Costituzione varcasse finalmente i cancelli delle fabbriche, il futuro Presidente partigiano, ricordò ai colleghi onorevoli in Parlamento, che furono migliaia gli operai e i contadini a subire l’82% dei processi svolti davanti al Tribunale Speciale fascista. Che furono gli operai italiani a scioperare contro la dittatura, ad incrociare le braccia nelle più grandi manifestazioni di opposizione, alla luce del sole, nei paesi invasi da Hitler,  pagando un prezzo terribile con il carcere e la deportazione nei campi di sterminio. Ricordò che alla classe lavoratrice la Repubblica dovesse rendere merito, dimostrandole riconoscenza, per avere trovato la forza di dire no quando si rendeva necessario e di avere lottato sempre per la libertà e la giustizia. Nessuna delle figure autorevoli e prestigiose che pure gli sono succedute, ha mai più parlato su questo tema in modo così chiaro, franco e diretto. Il termine “classe lavoratrice” è lentamente scomparso in questi anni, così come le categorie interpretative che leggono le stratificazioni sociali e le condizioni materiali ed immateriali che ne derivano, come la povertà e la dimensione collettiva, in favore di più mansueti ed inoffensivi riferimenti individuali, da competizione spinta e da consumo parossistico. Dove il diverso è sempre nemico e le storie devono durare un giorno solo prima di finire nel paleozoico o nell’oblio. E dove, soprattutto, l’unica certezza deve essere l’incertezza, l’assenza di punti d’appoggio e, orribile a dirsi,  di garanzie, di sicurezze. Che l’Italia sia una Repubblica fondata sul lavoro non può essere un cimelio, una delicatezza fragile da tenere sotto teca. Deve essere cosa viva, deve essere impegno costante, ricerca, banco di prova esibito e non nascosto. Che a parlarne e a chiederlo, insieme ai diritti e allo stato sociale sia rimasto il sindacato, nelle fabbriche e nelle piazze,  non suona bene per la nostra Costituzione, per la figlia migliore di una grande storia madre chiamata Resistenza. Eppure solo tre anni fa la maggioranza netta degli italiani l’ha difesa contro il tentativo pericoloso e pasticcione di mettervi mano, appellandosi al suo respiro, alla sua caratura, al suo inestimabile valore. La cultura democratica del nostro Paese, in termini di semplice consapevolezza,  sembra quasi improntata a percorsi carsici: non si vede ma c’è. Si inabissa, magari per lunghi tratti e poi riemerge. Basta non darla troppo frettolosamente per scomparsa e ritornerà alla superficie, magari per stupirci ancora una volta.

 

Quello di cui non ci stupiamo più invece sono le prese di posizione sghimbesce e provocatorie che in occasione del 25 aprile sembrano voler sbocciare come fiori a primavera, ripresentando come nuove questioni invece vecchissime e sempre noiosissimamente trattate. Che l’ANPI sia di parte è  vero. Lo è anche l’APO perché la P, anche per loro, sta per partigiani. Stavano da una parte, erano parziali e ringraziamo ancora il cielo che lo fossero, per tutti i giorni che passeremo lungo i conquistati sentieri della democrazia. Azzardiamo rischiosamente che pure la CGIL, la CISL e la  UIL, pur non avendo la P nell’acronimo, siano di parte, sia pure ingentilite dall’aggettivo “sociale”. Il mondo è fatto di parti, l’universo è fatto di parti. Le parti, per loro natura, non sono in grado di rappresentare il generale. Ma il generale, per essere davvero tale, non può sostituire il particolare, perché lo deve comprendere. Non può annullarlo, perché lo deve includere. Inclusione, nel lessico delle cose che valgono, ha un significato preciso, al quale siamo molto legati. E’ il contrario di discriminazione, di restrizione, di messa all’angolo. Equivale ad abbraccio, accoglienza, apertura e solidarietà. Valori nei quali non dobbiamo smettere di credere, anche quando circondati da un mare esteso di egoismo e di ignoranza.  Quell’ignoranza che confonde spesso diversità con differenza perché ignora o vuole ignorare  il senso fondamentale del principio di uguaglianza, che delle diversità e non delle differenze si alimenta per crescere. Una piccola digressione personale la ritengo necessaria per chiarire qualcosa sulle differenze, non legate agli esseri umani ma ai fatti, agli accadimenti.  Alla fine degli anni ‘70 ebbi modo di frequentare Fermo Solari e sua moglie Bianca, nella loro casa di Vicolo Florio a Udine. Una volta per averci accompagnato Vittorio Foa, suo vecchio amico e compagno di lotta, altre due volte come “infiltrato”, incuriosito da quelli che Fermo chiamava “tracciolini”, cioè coordinate necessarie ad evitare sconfinamenti dispersivi nell’intervista che tre giovani  di allora (Giorgio Cavallo, Tiziano Sguazzero e Toni Capuozzo) gli rivolgevano sulla Resistenza nel Nord Italia. Domande argomentate, ficcanti, dirette all’esponente friulano di più alto grado nei comandi della Resistenza italiana al nazifascismo, e quindi autorevolmente in grado di conoscerne sviluppi e risvolti, nelle grandi come nelle piccole articolazioni. Quell’intervista venne pubblicata nel ’79 con il titolo “L’armonia discutibile della Resistenza”. Discutibile perché semplicemente da discutere, da conoscere a fondo, da scandagliare e da riflettere lontano dagli stereotipi e dai luoghi comuni, come si addice alle cose vere, alle cose grandi. Pur dentro le diversità, dentro le differenze, i contrasti, le spigolosità e le ombre di percorsi complessi, dove a scontrarsi non era solo fascismo ed antifascismo, ma progresso e conservazione, privilegio e cambiamento, neppure una sola volta Fermo mise in discussione il valore ed il senso complessivo della lotta partigiana. Per lui la storia non si poteva distorcere, appiattendone i contenuti o annullandone le diversità. Meglio sempre le verità che le omologazioni. Grazie per la lezione a Fermo Solari, grazie a Romano Marchetti, altro figlio della nostra Carnia cui dobbiamo molto. Grazie ancora a Sandro Pertini.

Stamane a Udine siamo tutti insieme, secondo una tradizione di civiltà unitaria che si addice a questa festa di Liberazione, che si addice alla comunità friulana di cui siamo espressione. CGIL CISL UIL, per questo, sono grate a tutti voi. Non ignoriamo certo l’esistenza di tensioni e di difficoltà che attraversano la nostra società, ed hanno ragioni concrete, ma restiamo convinti che non è con le tensioni che si può costruire il futuro. Pensiamo agli obiettivi, come facemmo all’indomani del terremoto che aveva ferito la nostra terra, coltiviamoli con passione e le diversità non saranno un ostacolo, ma una ricchezza

Viva la Resistenza, Viva la Costituzione, Viva il 25 Aprile !